Se si scrive di teatro, soprattutto se nel frattempo lo si pratica, diventa necessario improvvisamente dedicare uno spazio allo spettatore.
Chiunque faccia esperienza di palcoscenico sa perfettamente che senza spettatori il teatro diventa impossibile. Per dare forza a questo principio, attingo a un passaggio di Grotowski, che sul rapporto attore-spettatore ha scritto pagine notevoli.
Il teatro, nella sua più autentica essenza, è ciò che accade tra l'attore e lo spettatore. [...]
Nella relazione tra attore e spettatore si instaura un flusso immaginativo che permette il contemporaneo manifestarsi di identificazioni e disidentificazioni, l'attivazione di emozioni e il giudizio, l'assorbimento e l'osservazione distaccata.
Insomma, un nobile relazionarsi, un essere parte di un organismo unico, in cui il palcoscenico si fonde con la platea e questa "creatura" che è l'arte del teatro respira, vive.
Ci sono fior di studi sulla fenomenologia dello spettatore, molti dei quali studiano questo indispensabile fruitore per creare strategie di attrazione, per andare incontro ai suoi gusti e per dirla tutta per fare in modo che il teatro non soccomba del tutto.
La drammaturgia ha fatto la sua parte in particolare nel Novecento, con i maestri della scrittura teatrale che hanno focalizzato tutta la loro attenzione sullo spettatore, dando luogo a sperimentazioni anche piuttosto ardite, come creare spazi scenici in cui non c'è una reale distinzione tra attori e fruitori, oppure mescolando gli attori agli spettatori in platea, o ancora con situazioni tali che è lo spettatore stesso a "creare" la propria scena, come nel caso dello spettacolo Buio, in cui chi arrivava determinava la scena interagendo di volta in volta in modo diverso con gli interpreti.
Ma ora spostiamoci dall'ambito "nobile" del fenomeno e andiamo a quello più "basso".
Nei secoli passati, il pubblico interagiva con la scena molto di più, anzi i drammaturghi scrivevano per suscitare reazioni anche rumorose nel pubblico, per farlo infuriare o ridere fino allo sfinimento o commuovere fino alle lacrime. Uno su tutti, il teatro di Shakespeare, in cui il pubblico, notoriamente posto in piedi, poteva anche letteralmente invadere la scena, si appoggiava al palcoscenico, vi si sedeva sopra per assistere.
In tanti anni di pratica teatrale mi sono capitate decine e decine di esperienze di "pubblici" diversi. C'è da dire che ho cominciato con la commedia brillante, il pubblico che sedeva nelle platee era quello orientato verso lo spettacolo divertente, i colpi di scena, gli equivoci, la velocità d'azione.
C'erano sere di pubblico attivissimo, sollecitato alla risata assai facilmente, pronto ad applaudire a scena aperta, quel tipo di pubblico che gasa l'attore, che di conseguenza si muove più agevolmente. Poi c'erano sere in cui avevi l'impressione di stare facendo un altro spettacolo, con pubblico passivo, distratto, decisamente diverso. Ho sempre attribuito una parte della responsabilità a chi sta in palcoscenico quando accadono cose del genere, ma sono altresì certissima che ci sia un pubblico effettivamente diverso dall'altro e che non sempre può andarti bene, quanto a sensibilità.
Da tre anni in qua non pratico più la commedia brillante, mi sono data a un teatro che mi piace definire "poetico", una scelta di stile, un cambiamento di rotta evidente.
Ho portato in scena Falene, ispirato al film "The Hours" intorno alla figura di Virginia Woolf; poi ho scritto una specie di "shakespeareana" dal titolo Mi riveli il segreto di William Shakespeare?, un intreccio sulla crisi del drammaturgo e il teatro del Bardo; poi è stato il turno di Frida del mi alma, il racconto di Frida Kahlo, per arrivare a Foglie d'erba. Spettacoli impegnati, appunto "poetici", che richiedono un pubblico assai sensibile e in grado di fare una riflessione.
Ebbene, se penso alle centinaia di persone che si sono avvicendate in platea, devo dire che il parterre è stato vario. Sorvolo su tutte le fantastiche persone che sono state in silenzio, attentissime, si sono lasciate narrare queste storie senza fare un fiato, per andare all'esatto opposto.
Può forse mancare un elenco dei tipi di spettatore? Giammai.
1. Quello che fa polemica al botteghino.
Aveva la prenotazione? Non ricorda. Ha prenotato ma con nome di battesimo e si incavola se non sta nella lista. Ha prenotato a suo nome una decina di persone, gli altri non sa quando arriveranno.
2. Quello che esige il posto assegnato.
Hai voglia a ripetere: guardi che i posti non sono numerati, se è arrivato in ritardo non posso farci nulla, deve prendere posto in fondo alla sala. Lui esige di stare almeno a metà platea e si quieta solo dopo una decina di minuti di sterile discussione.
2. Quello che arriva in ritardo.
Lo spettacolo è fissato per le 21:00 o per le 18:00 nel caso della pomeridiana, lui si presenta con un ritardo che può sforare la mezz'ora dall'inizio dello spettacolo.
3. Quello che chiede continuamente del caffè o dell'acqua.
Avete letto bene, come se fossimo esercenti di un bar o se ci trovassimo al cinema prima dell'inizio del film. Ma anche lì, devi acquistare prima di entrare, o no?
4. Quello che si porta dentro il teatro le patatine o le ha comprate alla macchinetta distributrice del foyer e sul più bello comincia a suonare la pessima orchestra del rumore della busta.
5. Quello che nel bel mezzo dello spettacolo ha un impellente bisogno.
Costui è tipico. Non è che venga a teatro dopo aver espletato tutte le sue funzioni fisiologiche, attende proprio di venire sul posto e che lo spettacolo sia nel suo clou per alzarsi e fare spostare intere file. E non si tratta di anziani.
6. Quello che si porta un neonato.
Ora, per carità, apprezzo cotanto amore per l'arte drammatica, ma... sarà proprio il caso di portarti una creatura di pochi mesi che giustamente vagisce ed esige la poppata durante lo spettacolo?
7. Quello che commenta ad alta voce la scena.
Sì, proprio dando sfogo all'emozione, si mette a parlare, quasi aspettandosi che l'attore gli risponda per dare spiegazioni o dargli ragione.
8. Quello che non applaude.
Nè a scena aperta, quando il resto della platea dà il suo "premio" alla bravura, né tantomeno alla fine.
9. Quello che si alza e se ne va prima che gli applausi finali e i saluti siano finiti.
Non che sia fra quelli peggiori, ma trovo che sia un tantino poco adeguato. Quando sono spettatrice, mi piace restare fino al termine, dando testimonianza del mio esserci a prescindere se mi sia piaciuto o meno.
10. ... rullo di tamburi... Quello cui squilla il cellulare.
Dulcis, ma molto dulcis in fundo. Lo lascio al termine perché è quello più maleducato, il più fastidioso, il principe della molestia, l'insensibile, l'indifferente a tutto. Nell'ultima replica di Foglie d'erba abbiamo avuto un saggio assai illuminante a riguardo. So che in diversi teatri, anche di professionisti del mestiere, hanno interrotto lo spettacolo per redarguire questi inetti delle buone maniere.
Resta sacrosanto l'avvertimento iniziale. Guai a perdersi l'avviso, perché ci sarà sempre anche solo uno cui squilla il cellulare e perfino chi risponderà alla chiamata, magari anche a voce alta. Il trionfo dell'assurdo, quasi fossimo in uno scenario ioneschiano.